Omelia del Patriarca Francesco Moraglia durante le esequie del Patriarca Emerito Marco Cè. Al termine il messaggio di Papa Francesco.
Sia lodato Gesù Cristo!
Carissimi,
con questa semplice e fraterna espressione mi rivolgo a tutti, ai confratelli nell’episcopato, ai presbiteri, ai diaconi, ai consacrati, alle consacrate, ai fedeli, a quanti appartengono alle varie confessioni cristiane e alle differenti fedi religiose e, anche, agli uomini e alle donne che non credono; tutti ringrazio per la partecipazione, giunta anche attraverso numerosi messaggi e lettere.
Alle autorità esprimo la mia riconoscenza per la loro partecipazione. Un saluto del tutto particolare e affettuoso va al carissimo don Valerio, segretario fedele e amico sincero. Don Valerio, ti vogliamo bene davvero ed immaginiamo il tuo grande dolore; faremo il possibile per farti sentire il meno possibile la solitudine.
Quanti – seppur in modi diversi – hanno avuto la grazia di conoscere e frequentare da vicino il patriarca Marco sono sempre stati arricchiti dalla sua paternità, dal suo tratto umano, signorile e fraterno; in una parola, dalla sua amabilità di sacerdote.
Se ora potesse rivolgersi ancora a noi, da uomo di fede quale era, si servirebbe – come era solito – della Parola di Dio e, prendendo spunto dai testi ascoltati, ci ricorderebbe che “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore” (Rom 14, 7-8).
E subito aggiungerebbe – era il suo pensiero abituale all’inizio di ogni nuovo giorno – come ha ancora recentemente confidato in un suo scritto: “Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie. Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà” (Lam 3, 22-23). Infine, partendo dall’annuncio pasquale così com’è risuonato nel vangelo di Marco, ci avrebbe ripetuto con i suoi occhi buoni e sinceri: “Non abbiate paura!” (cfr. Mc 16,6).
Carissimo patriarca Marco, hai servito come vescovo la Chiesa che è in Venezia dal gennaio 1979 al gennaio 2002 e poi hai continuato a rimanere in essa – con una presenza discreta, disponibile e orante – fino a quando il Signore ti ha chiamato a Sé: ti ringraziamo del tuo servizio generoso, umile e fedele, protrattosi – in modi diversi – per 35 anni.
L’inizio del tuo ministero episcopale, a Venezia, ha coinciso con una stagione sociale di forti conflitti. Anni che lasciarono una dolorosa striscia di sangue che segnò il nostro territorio e di cui Porto Marghera fu un epicentro: il 29 gennaio 1980 fu ucciso Sergio Gori, vice direttore dello stabilimento; il 12 maggio fu la volta del commissario Alfredo Albanese che seguiva le indagini di quell’omicidio, il 6 luglio 1981 fu la volta di Giuseppe Taliercio, assassinato dopo essere stato rapito alcune settimane prima.
In un clima sociale molto difficile tu, nuovo patriarca – che succedevi ad Albino Luciani, papa per soli trentatré giorni -, muovevi i primi passi. Eri stato consacrato vescovo nella cattedrale di Crema nel giorno di Pentecoste del 1970; era il 17 maggio, esattamente come oggi. Per la Chiesa erano gli anni del post-Concilio, segnati da forti passioni, da grande entusiasmo e – come spesso avviene dopo un’assise conciliare – anche da tensioni.
Il tuo amore al Concilio è bene espresso in questo pensiero che ti era particolarmente caro: “Quando si celebrò l’ultimo concilio, ogni giorno si intronizzava la Bibbia e la Bibbia era il vero presidente dell’assemblea conciliare; sotto la Bibbia c’era il banco della presidenza, che stava appunto sotto, perché la regola, la norma, secondo la quale il concilio doveva procedere e a cui doveva costantemente riferirsi era la parola di Dio” (Marco Cè, Il tuo volto, Signore, io cerco, EDB Bologna 2006, pag. 74).
Anni belli, impegnativi, destinati a segnare il futuro; anni in cui fosti prima vescovo ausiliare della Chiesa che è in Bologna, poi assistente generale dell’Azione Cattolica Italiana e, infine, il quarantaseiesimo successore di Lorenzo Giustiniani, proto-patriarca della Chiesa che è in Venezia. Hai voluto sempre essere fedele all’ufficio patriarcale che in quel momento assumevi. Patriarca, come mi hai ricordato al momento della mia nomina, è nome che indica – per un intero territorio ecclesiastico – l’origine e il fondamento della paternità. E tu hai voluto incarnare al meglio quella paternità.
Per noi, in questo momento doloroso di commiato, è bello ascoltare, nella chiesa che fu la tua cattedrale, le parole che dicesti all’inizio del servizio episcopale a questa nostra Chiesa. Era l’Epifania del 1979: “Sono venuto a Venezia per adorare Cristo, e deporre davanti a Lui l’oro, l’incenso e la mirra della mia umile esistenza, per la Sua sposa che è questa Santa Chiesa e per gli uomini di questa terra… Io infatti in mezzo a voi altro non vorrei essere che epifania di Cristo, il battistrada che dice: dopo di me c’è uno più grande di me” (Marco Cè: vescovo, padre e fratello, Edizioni CID, 2002, p. 5).
Il neo patriarca comprendeva bene la situazione sociale ed ecclesiale di quel periodo e quanti, di volta in volta, gliela presentavano erano soliti sottolinearne, con forza, le difficoltà. Fu decisivo, allora, quanto gli disse il vescovo di Padova Girolamo Bortignon: “Conosco bene i veneziani, i veneziani vogliono bene al loro patriarca; non abbia paura perché Lei a Venezia si troverà bene”. Sono le stesse parole che mi dicesti nel nostro primo incontro.
Così, dopo la conversazione col vescovo Bortignon, lo stato d’animo del neo patriarca – fu lui stesso a confidarlo – divenne di grande fiducia anche se non di piena serenità (cfr. Marco Cè: vescovo, padre e fratello, Edizioni CID, 2002, p. 10). Ma la fiducia presto si mutò nella gioia di chi si sente accolto; è ancora lui che – a distanza di oltre sedici anni – lo dichiara in un’intervista a Gente Veneta; era il 3 giugno 1995, giorno della conclusione dell’anno marciano e in cui festeggiava i venticinque anni di episcopato.
E’ bello che tutti i veneziani – soprattutto quelli che allora c’erano – sappiano che il patriarca Marco, da loro, si sentì subito accolto e amato. Che cosa può desiderare di più un pastore se non sentirsi amato e accolto dalla sua gente? “Ho trovato innanzitutto – sono sue parole – l’accoglienza. Mi sono sentito accolto, ho trovato molta franchezza e molta sincerità”.
L’episcopato di Marco Cè e, prima ancora, il suo sacerdozio sono caratterizzati dalla costante attenzione che la Chiesa, incontrando le nuove culture, si ponesse in atteggiamento di disponibilità e ascolto.
Il patriarca voleva che i giovani e le famiglie si sentissero interpellati ed infatti li considerava i “soggetti” della nuova evangelizzazione: Ecco le sue parole: “…non soltanto il prete ma tutti devono essere protagonisti di un nuovo annuncio. Questa è un po’ una rivoluzione culturale all’interno della Chiesa perché si è sempre pensato che i preti e i vescovi fossero i protagonisti dell’evangelizzazione. Oggi noi prendiamo coscienza che è il battesimo il fondamento dell’annunzio del Vangelo a cui tutti siamo chiamati” (Marco Cè: vescovo, padre e fratello, Edizioni CID, 2002, pag. 13).
Il nostro grazie al Signore per il patriarca Marco si motiva, innanzitutto, per il suo stile sacerdotale e il modo sincero e fraterno d’esser stato per noi vescovo. In questo momento risuonano intense le parole da lui dette sulla sua vocazione al sacerdozio: “Nella mia vita non ho voluto fare altro che il sacerdote. Ho avuto i miei momenti di conversione a Dio, ma in una grande continuità”. E poi aggiunge: “I ricordi più belli sono nelle cose umili, in tanti incontri in cui ho visto che la mia vita, la mia presenza, diventava significativa per le persone” (Marco Cè: Vescovo, padre e fratello, Edizioni CID, 2002, pp. 15-16).
Al termine del servizio episcopale a Venezia il patriarca si presentava come l’uomo dell’Eucaristia e della Parola di Dio amata e annunciata, sempre nel rispetto dell’interlocutore e con la passione che non è soltanto quella dello studioso ma del credente e dell’evangelizzatore che sa d’essere mandato a portare un messaggio di cui è il primo destinatario. È stato, quindi, un pastore innamorato della parola di Dio e impegnato a garantire alla sua Chiesa l’Eucaristia, presentandosi solo come il servitore di Gesù – unico e sommo sacerdote – e offrendosi totalmente nel servizio di guida della Chiesa a lui affidata.
La Chiesa – nella sua realtà sacramentale, nel suo essere segno efficace di Cristo, come insegna il Concilio Vaticano II – è stata, per lui, costante ed imprescindibile riferimento di tutta la vita, la Chiesa intesa come memoria viva di Cristo; da tale convincimento teologico e spirituale derivava la tensione o attrazione ecclesiale alla comunione e alla partecipazione. Egli percepì sempre la Chiesa come sgorgante dall’Eucaristia e modellata su di essa.
In questo momento, per noi triste, perché segna la radicale separazione da una persona cara a cui abbiamo voluto bene e dalla quale ci siamo sentiti amati, ci sostiene – siamo nel tempo pasquale – la fede nella risurrezione o, meglio, la fede nel Signore Gesù risorto.
Ascoltiamo allora, non senza emozione, le parole con cui, alla sera dell’Epifania del 1979, il novello patriarca si rivolgeva per la prima volta alla sua Chiesa. Queste parole per noi, oggi, rivestono un significato particolare: “Così, ora, il mio cuore si apre a voi, fratelli, figli carissimi di Venezia, per salutarvi. Vorrei potermi rivolgere a ciascuno di voi, quasi chiamandovi per nome, nessuno escluso” (Marco Cè: vescovo, padre e fratello, Edizioni CID, 2002, p.7).
Carissimo Patriarca Marco, ci hai voluto bene e sei stato per noi un padre; anche noi ti abbiamo voluto bene e mai ti dimenticheremo.
Con grande affetto e tristezza – certi che un giorno ci rivedremo e vivremo per sempre col Signore risorto – ti affidiamo, con animo sereno e fiducioso, al buon Dio, il Dio misericordioso e fedele, convinti che Egli riconoscerà in te il servitore saggio e fedele di cui parla il Vangelo e che fa esclamare: “Bene, servo buono e fedele (…), sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25, 21).
Ora tu sei innanzi al Padre che è nei cieli e non conosci più le fragilità e le debolezze che ti hanno segnato in questi anni, soprattutto in questi ultimi mesi. Sii, allora, per la nostra Chiesa che è in Venezia e per ciascuno dei suoi figli, come per tutti gli uomini e donne di questa città, il padre e il fratello che intercede presso l’infinita misericordia e tenerezza di Dio.
Carissimo patriarca, chiediamo alla Madre del Signore che ti accolga in Paradiso; tu amavi rivolgerti a Lei col titolo di Maris Stella e, oggi, al termine della liturgia insieme la invocheremo nella melodia tradizionale di Ravetta, come tu hai espressamente richiesto.
Dopo aver ricevuto l’unzione dei malati. e prima che ti chiedessi di benedire ancora una volta coloro di cui eri stato patriarca, l’avevi voluta invocare con la recita dell’Ave Maria.
Carissimo patriarca Marco, ricordati di noi e benedici tutti dal cielo.
Sia lodato Gesù Cristo!
A questo punto desidero esprimere il mio sincero ringraziamento a coloro che, soprattutto in questi mesi, senza risparmiarsi, hanno seguito e curato il cardinale.
Il ricordo va, innanzitutto, al fedele segretario e amico di una vita don Valerio, l’unico segretario che ha accompagnato il cardinale lungo tutti i 35 anni veneziani. Don Valerio, coraggio, ti siamo vicini con tutto il nostro affetto.
Un ringraziamento va al prof. Andrea Bonanome, a tutti i medici e all’intera équipe sanitaria. Profonda gratitudine poi va a quanti hanno accudito il cardinale giorno e notte e, qui, oltre alla cerchia degli amici, desidero ricordare la Delegazione di Venezia dell’Ordine di Malta, che in questi mesi – in cui le sue forze andavano via via scemando – ha fedelmente garantito, senza interruzioni, l’impegnativa assistenza notturna.
Ringraziamo, infine, tutti coloro che si sono fatti presenti di persona, per telefono, con lettera; degli scritti pervenuti, per il loro numero, qui non è possibile darne lettura e saranno resi noti in seguito.
Ora dò lettura del messaggio di papa Francesco mentre al termine, saranno letti gli scritti del cardinale Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, di cui il patriarca Marco fu vicepresidente, del cardinale Scola, successore del patriarca Marco, e del cardinale veneziano Loris Francesco Capovilla.